contatore

Puglia

Raimondo di Sangro:

 

 

Il principe diabolico 18 La storia del principe di Sansevero. E delle sue sinistre meraviglie Raimondo di Sangro, detto principe di Sansevero. Eccentrico, filosofo, astronomo, poeta, scrittore, guerriero, mecenate, inventore, mago, scienziato, alchimista. Un precursore dei tempi, uno scienziato pazzo, un genio, uno stregone malvagio. Il personaggio più misterioso del settecento italiano. Chi era questo ricco signore che, invece di dedicarsi ai tipici passatempi di ogni nobile dell’epoca come la caccia e il gioco, scelse di immergersi nella lettura di testi alchemici e di chiudersi per ore nel suo studio a effettuare esperimenti mai tentati prima? Perché trasformò una semplice cappella di famiglia in una sorta di Rennes le Château? A Napoli c’è chi ancora si fa il segno della croce quando sente il suo nome, poiché la sua sconfinata vivacità intellettiva lo portò ad alcune azioni deprecabili per arrivare alle mete che si era prefissato. Le cose che la cripta conserva tutt’oggi sono testimonianze che lasciano sgomenti quei turisti che accettano di scendere a dare un’occhiata. La stirpe dei Sansevero ha inizio nel 1587 con Giovan Francesco di Sangro, primo principe. Raimondo diventa il settimo principe a soli sedici anni, quando muore il nonno Paolo, sesto principe di Sansevero. Antonio, padre di Raimondo e figlio di Paolo, aveva già rinunciato in precedenza al titolo in favore dell’abito sacerdotale. Rimasto vedovo e distrutto dal dolore, si era dapprima tuffato in una vita dissoluta per poi fare ammenda e diventare un ministro di Dio. Quella dei Sangro è una stirpe che ebbe legami di parentela e di amicizia con personaggi importantissimi quali Carlo Magno, numerosi prelati dell’Ordine Benedettino, Innocenzo III e membri dell’Ordine dei Templari, dei Rosacrociani, dei Massoni. Nato a Torremaggiore (Foggia) nel 1710, Raimondo dimostra fin da giovane uno spiccato interesse per le scienze. Fattosi adulto non esita a entrare a far parte della Scuola Alchemica Napoletana. Diventa Gran Maestro massone e intreccia relazioni con chiunque possa aiutarlo a meglio comprendere i misteri dell’universo. Nel suo palazzo adibisce una grande stanza a laboratorio e comincia a passarci gran parte del giorno e della notte. Questo stile di vita, piuttostanomalo per un aristocratico, dà adito a sospetti sul suo conto e sulle cose che accadono nella sua casa. Raimondo è un uomo sicuro di sé e i pettegolezzi non lo toccano, anzi, lo spingono verso atteggiamenti sempre più stravaganti. Arriva a farsi costruire una carrozza più larga di quelle comuni per passare a filo nei vicoli di Napoli e dimostrare che il suo mezzo di trasporto è più grande di quello del re. Si sposa e ha cinque figli, ma non sembra curarsi poi molto della famiglia, preso com’è dai suoi studi. Esiste un libretto, scritto forse da lui stesso, che oggi è conservato negli archivi del Vaticano e che riporta gli strani oggetti presenti nel palazzo. Vi è descritta quella che lui chiama la Lampada Perpetua, o Lume Eterno, composta da una mistura di fosfato di calcio e fosforo ad alta concentrazione in grado di bruciare molto più a lungo di qualsiasi lume, i progetti di una carrozza che si muove per brevi tratti senza i cavalli e quelli della prima carrozza anfibia, nuove tecniche per la stampa, nuovi tessuti (tra i 

quali una specie di seta vegetale) e nuovi tipi di vernici destinate a durare nel tempo. Fu lui a costruire un cannone in lega di ferro quando tutti gli altri erano in bronzo, e fu sempre lui a inventare un fucile a retrocarica, anticipando di molto la rivoluzione delle armi da guerra. In quel clima da Santa Inquisizione il confine tra il puro studio scientifico e la stregoneria era pressoché inesistente, e i guai non tardarono ad arrivare. Infatti, nel 1751, papa Benedetto XIV, preoccupato dal proliferare di congreghe che sfuggivano al controllo della chiesa, consigliò a Carlo III di emanare un editto anti-massonico. Ancora prima che si scatenasse la vera e propria caccia alle streghe, il principe non esitò a salvarsi dalla rovina rivelando al re i nomi dei fratelli massoni per rendere evidente la sua rinuncia all’ordine. In realtà Raimondo non interruppe mai i rapporti con la loggia napoletana e continuò imperterrito i suoi studi esoterici. Alla sua morte, purtroppo, i parenti distrussero tutti quei documenti che avrebbero potuto collegare il nome di Raimondo agli ambienti della Massoneria e del mondo dell’occulto. Sono andati persi testi di inestimabile valore, invenzioni che forse avrebbero facilitato e anticipato molte scoperte. Si temevano vendette da parte dei massoni che si sentivano traditi e quindi fu distrutto anche il passaggio che collegava il palazzo alla cappella, un luogo che conteneva un particolare orologio dotato di un carillon a campane. Percuotendo una serie di tasti si potevano ottenere svariate melodie. Era una sorta di tempietto dedicato a quell’ordine clandestino che, seppur ostacolato da editti e proibizioni, non avrebbe mai cessato di esistere. La suddetta cappella, che racchiude le spoglie dei membri della famiglia, si trova in Piazza San Domenico Maggiore. Fatta costruire da Giovan Francesco nel 1590 come luogo in cui venerare una statua della Vergine della Pietà che, rispondendo alle sue preghiere, lo aveva guarito da una grave malattia. Per questo, oltre che a essere conosciuta come Cappella Sansevero dei Sangro, lo è anche come Santa Maria della Pietà dei Sangro, o più semplicemente come La Pietatella. Nel 1631 il figlio di Giovanni, Alessandro, eseguì un esteso restauro e la ampliò per farla diventare cappella sepolcrale di famiglia. Ma fu Raimondo il vero artefice della trasformazione dell’edificio. Tra il 1744 e il 1766, quella che in origine era una semplice chiesetta, divenne uno dei luoghi più misteriosi di Napoli. È un rettangolo che termina in un sontuoso presbiterio. Ai lati diciotto statue accompagnano il visitatore alla scoperta dei simboli massonico-esoterici di cui il luogo è pregno. Raimondo attinse a piene mani dalle sue ricchezze e chiamò presso di sé i più rinomati scultori e pittori perché dessero vita a un progetto tutto particolare. Gli artisti che lavorarono nella cappella seguirono le precise istruzioni del principe e alcuni di loro riferirono che fornì strani colori e un tipo di mastice che una volta asciutto assomigliava in tutto e per tutto al marmo. Materiali di natura alchemica? Può essere. Il risultato è un piccolo gioiello del tardo barocco, un tripudio di affreschi (i cui colori si sono conservati straordinariamente vivi) statue, stucchi, marmi e oro. Ogni cosa ha un suo preciso significato, un messaggio che è rimasto immutato nel tempo, ed è questo che la rende un luogo enigmatico che rapisce gli occhi e l’anima di chiunque vi metta piede. Le statue sono quasi tutte femminili e rappresentano le virtù fondamentali della natura umana tra cui la forza, la sapienza, la fede. Lanciano il loro messaggio attraverso i vari oggetti che tengono in mano o che giacciono ai loro piedi. Libri, compassi, fiori, cornucopie, caducei (sottili verghe con le ali e due serpenti attocigliati in procinto di baciarsi, simbolo di pace usato da Mercurio per sedare le liti) fiammelle e cuori. Le statue dei genitori di Raimondo sono quelle che più colpiscono il visitatore. Il monumento funebre dedicato a Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, madre di Raimondo, morta quando lui aveva appena un anno, è denominato La Pudicizia e rappresenta una donna nuda coperta da un velo. Osservando questo velo scolpito si ha l’impressione che, pur essendo parte integrante della statua, sia stato steso solo in seguito al completamento del corpo di donna. La lapide spezzata ci ricorda che Cecilia è morta molto giovane, ma sta a indicare anche il sogno cullato da tanti alchimisti, e cioè quello di riuscire a sconfiggere la morte attraverso la creazione di un elisir di lunga vita. Il monumento funebre dedicato al padre, Antonio di Sangro, è chiamato Il Disinganno. Rappresenta un uomo che lotta per liberarsi da una rete, così come fece Antonio che si ‘liberò’ di una vita dissoluta per dedicarsi a Dio. È anche l’invito a liberarsi di tutti i preconcetti per meglio comprendere i segreti alchemici ed esoterici. Anche qui l’occhio è colpito dal modo in cui la rete avviluppa il corpo e tuttavia non si fonde con esso. Il genietto alato, il globo e il libro rappresentano la conoscenza e la saggezza che aiutano l’uomo a elevarsi a un livello spirituale superiore. Sia il velo che la rete fanno pensare all’uso di quel mastice-marmo descritto da uno degli artisti che contribuirono al restauro. Davvero il principe aveva creato un materiale estremamente malleabile che una volta asciutto diventava uguale al marmo? Oppure, come asseriscono alcuni, la statua fu fasciata con una vera rete di semplice corda e immersa in un liquido che avrebbe cristallizzato la fibra della corda facendola diventare del tutto simile al marmo? Anche il Cristo Velato (o Cristo Morto) è una scultura che lascia il segno. La corona di spine che giace ai suoi piedi è un oggetto che molti rimangono a osservare rapiti. Lo straordinario realismo dà l’impressione che un vero intreccio di rami spinosi sia stato immerso in uno speciale smalto bianco. La grande lapide del principe è scolpita con i caratteri in rilievo, un lavoro estremamente accurato che si dice sia stato facilitato da qualche strumento all’avanguardia. La prima frase è il sunto di ciò che Raimondo pensava di se stesso: "Uomo mirabile, nato a tutto osare." Ogni cosa, in questo affascinante luogo, ci parla in un doppio linguaggio: quello religioso-spirituale e quello massonico-esoterico. Niente di ciò che vediamo è stato plasmato, scolpito, decorato e dipinto come semplice abbellimento. Qui ci sono il sapere e la genialità di un uomo che non seppe accontentarsi di quello che la sua epoca aveva da offrire. Ci sono il suo pensiero e le sue convinzioni riguardo il mondo, la vita, l’universo, i poteri della mente e dello spirito. I suoi molteplici studi ed esperimenti comprendevano anche il corpo umano, ed è soprattutto a causa di questi che si guadagnò la fama di stregone. Chi non è facilmente impressionabile può scendere nella cripta ovale che si raggiunge tramite una scala a chiocciola (che lui volle chiamare Appartamento della Fenice) dove sono custoditi, in teche di vetro, i corpi di un uomo e di una donna che qualche intruglio alchemico è riuscito letteralmente a disseccare, lasciando intatte vene e arterie. Sono vere e proprie Macchine Anatomiche. L’intero apparato cardiocircolatorio che avvolge lo scheletro è stato, in pratica, pietrificato e ancora oggi non è chiaro come sia stato ottenuto un simile risultato. C’è il forte sospetto che i due esseri umani siano stati sottoposti al processo mentre erano ancora in vita. Particolare impressionante è che la donna era incinta.

 Sono ben visibili i resti del feto ai suoi piedi. La donna ha un braccio alzato, come se fosse stata colta da una paralisi mentre cercava di fuggire. Complice dell’esperimento si dice sia stato il medico palermitano Giuseppe Salerno. L’ipotesi più probabile è che sia stata iniettata una sostanza in grado di cristallizzare vene e arterie. I corpi, in seguito alla morte, si sarebbero decomposti senza che queste venissero intaccate. Il problema è che a quell’epoca le siringhe ipodermiche non esistevano ancora. C’è chi dice che si tratti di povere ossa ricoperte da una struttura artificiale, ma su quale modello si sarebbe basato lo scultore per riprodurre l’intero sistema cardiocircolatorio, se le conoscenze sul corpo umano erano ancora molto scarse? Quel feto smentisce questa ipotesi perché racconta chiaramente di una lenta decomposizione del cadavere della madre: i tessuti cedono, la placenta fuoriesce dalla cavità addominale, scivola verso il basso, cade a terra. Si dice che il principe rapisse i poveri che vagabondavano per i vicoli di Napoli per usarli come cavie o che, come in questo caso, usasse i servi che lavoravano a palazzo. Un folle che non si fa scrupoli di iniettare sostanze velenifere nel corpo di una donna incinta, o una mente lucida che tenta di scoprire come rendere l’uomo immortale? Non abbiamo neanche mezza parola tracciata su carta dal principe per comprendere lo scopo di questo particolare esperimento. Forse sarebbe saggio astenersi, per quanto possibile, da qualsiasi giudizio lapidario. Non sarebbe difficile aggiungere altri epiteti al nome di Raimondo, specie pensando che era conosciuto anche come il castratore. Un’abitudine molto discussa era quella di comprare fanciulli dotati di una bella voce e provenienti da famiglie indigenti per farli castrare e quindi avviare alla carriera di cantanti. Lo faceva per amore dell’arte, o per mettere in pratica alcuni concetti astratti della Massoneria che vedevano nell’essere androgino la perfezione assoluta? Un’idea puramente filosofica, un’esortazione a rifuggire i canoni dettati dalla società, a non farsi ingabbiare in ruoli prestabiliti, per giungere ad avere un animo compiuto, dotato sia di sensibilità femminile sia di forza maschile. Raimondo era un fervente sostenitore di tale idea o solo un sadico che rapiva fanciulli? Ancora una volta è difficile tracciare una semplice croce sull’immagine di un individuo che sembra un bizzarro miscuglio composto dal genio di Leonardo, dall’ambiguità dell’abate Sonière e, perché no, dal frenetico desiderio di sconfiggere la morte di un vero dottor Frankenstein. La sua fine, avvenuta a Napoli nel 1771, è avvolta nel mistero come la sua intera esistenza. Forse morì durante uno dei suoi esperimenti a base di sostanze tossiche. Si dice che avesse scoperto una pozione capace di far tornare in vita i morti e su questa diceria è nata una macabra leggenda. Un giorno il principe si dichiarò certo di essere in procinto di morire e istruì un servo a tale proposito. Il domestico avrebbe dovuto tagliare a pezzi il cadavere e chiuderlo in un baule. Nessuno doveva aprirlo prima di un dato lasso di tempo, per dare modo alla pozione di agire e di strapparlo alla morte. Quando il presagio si avverò il servo seguì gli ordini del suo signore e si pose a guardia al baule, ma i parenti che stavano setacciando il palazzo in cerca di ricchezze nascoste lo costrinsero a farsi da parte. Il baule fu aperto e il corpo ancora in via di ristrutturazione si sollevò di scatto. Il principe fissò i presenti con occhi pieni di orrore ed emise un urlo agghiacciante. Poi il cadavere si disfece sul fondo del baule. Forse è una leggenda e forse no. Sta di fatto che nel sarcofago che si trova sotto la lapide della cappella non c’è nulla. Dov’è finito il corpo? Nessuno lo sa. Trafugato dai fratelli massoni? Distrutto da chi lo credeva un discepolo del diavolo? Che il nostro sia uscito con le sue gambe dalla tomba per trasferirsi altrove? In decenni di studio incessante aveva davvero scoperto l’elisir di lunga vita? Pare che un certo Cagliostro, durante il suo processo, disse di aver appreso alcune pratiche da un principe di Napoli. Non possiamo appurare se si trattasse o meno di Raimondo, dato che gli atti del processo sono ben custoditi dal Vaticano. Tra gli alambicchi e le pile di libri alchemici, alla luce del Lume Eterno, forse Raimondo inventò, tra le altre cose, una pozione in grado di vincere la morte e, in seguito, trovò nel Conte di Cagliostro l’allievo perfetto. Usciamo dalla cripta e saliamo verso l’alto, nella cappella dei Sangro, l’involucro in marmo e oro dell’anima di Raimondo. È qui che si conclude la nostra singolare storia. La storia di un uomo mirabile, nato a tutto osare.

 

I MISTERI DI CASTEL DEL MONTE



Castel del Monte è situato in Puglia, a 540 metri sul livello del mare, nella Murgia andriese in terra di Bari. Il sito, affascinante e selvaggio allo stesso tempo, lontano dal traffico chiassoso e dai rumori di una civiltà irriverente, si raggiunge attraverso la diramazione B della S.S. 170 Spinazzola-Ruvo. Il territorio in cui è ubicato il maniero è caratterizzato dalla presenza di suggestivi trulli che si alternano ad ampie rade delimitate da muretti a secco utilizzati per lo stallaggio del bestiame.



Infatti, alcuni particolari toponimi attribuiti ai terreni circostanti e la presenza di jazzi indicano chiaramente la destinazione del posto al pascolo stagionale. Fino a qualche anno fa si è ritenuto che l'aspetto brullo del territorio che circonda il castello avesse nel Medioevo quello attuale, ma un'attenta analisi della flora spontanea costituita prevalentemente da lentisco (pistacia lentiscus), rovo (rubus fruticosus), cappero (capparis spinosa) e mirto (mirtus communis), ha evidenziato un paesaggio che si è andato via via modificando nel corso dei secoli. Infatti oggi constatiamo la presenza di un bosco degradato a causa dell'intensa attività edilizia dei centri limitrofi iniziato nel

XII secolo sino alla fine dell'Ottocento. Che il castello fosse situato all'interno di un bosco è ampiamente documentato dal contratto della sua cessione nel febbraio del 1876 tra il Duca Ferdinando Carafa e Ruggero Bonghi, Ministro della pubblica istruzione del Governo Italiano, per la somma di 25.000 lire. Ma qual era l'originario aspetto del paesaggio circostante? La toponomastica odierna ritiene che l'iniziale denominazione del luogo fosse Castel del Monte o Castromonte mentre realmente sarebbe dovuta essere quella di "Santa Maria del Monte" per la presenza di una cappella riportata nella missiva del 28 gennaio 1240 con la quale Federico II, trovandosi a Gubbio, ordinò a Riccardo di Montefuscolo, Giustiziere di Capitanata, di completare velocemente (sine mora) i lavori di completamento del castello: "Cum pro castro, quod aput s. Mariam de Monte fieri volumus per te...".
Sembrerebbe che accanto alla cappella o all'interno dell'edificio stesso vi fosse un piccolo monastero benedettino preesistente alla costruzione del castello così come riportato in numerosi documenti del 1120, 1130, 1150, 1158, 1177 e 1192 (Liber Censuum di Cencio Camerario) che lo designano come "monasterium Sancte Marie de monte quod in territorio tranensis civitatis situm est..." e in un documento del 1120 firmato dal Papa Callisto II. Forse, la vera denominazione del monastero, così come riporta l'Haseloff, era "Sanctae Mariae de Monte Balneoli" dove nel 1258 si insediarono i monaci Cistercensi provenienti da Santa Maria d'Arabona.
Si ritiene che lo stesso Federico II abbia visitato il sito intorno al mese di marzo del 1234 in quanto il giorno 20 dello stesso mese si trovava a Trani per "verdere la fabbrica dello castello". Stando alla documentazione pervenutaci e a quanto dichiarano sia lo Spinelli che il Merra, sembrerebbe che l'edificio sia stato adibito anche come prigione. Infatti ai tempi di Carlo I d'Angiò vennero aggiunte sulle torri le "bertesche" con feritoie allo scopo di collocarvi le guardie così come riportato in un documento angioino datato "Brindisi 13 aprile 1277". Una parte di queste bertesche era ancora visibile nel 1879 quando iniziarono i restauri come si desume dalla litografia pubblicata nella prima edizione dell'opera del Merra. Ma ancora oggi continua una sorta di diatriba tra alcuni studiosi circa l'origine e la datazione della costruzione del grandioso monumento. Uno dei primi che se ne occupò fu Maria Pratilli il quale scrisse nel 1745: "......è una rocca molto antica e di eccellente struttura situata sul dorso di un alto monte se pure non fosse ella servita nei secoli della gentilità per uso di monumento sepolcrale, ridotta poi da Greci, o dai Saraceni, o dai Longobardi in fortezza... Notizie o tradizioni di questo edificio mancano affatto non essendovi né iscrizione né altro, che possa assicurarcene, ma solamente alcuni geroglifici".
Altri studiosi hanno individuato in Castel del Monte l'antico villaggio di Netion, menzionato dallo storico Strabone, anche se questo sito sembra giustamente riportare a un vasto insediamento preclassico presso Andria. Sulla scorta delle prime indicazioni scaturì l'ipotesi della "villa romana"
fortemente presentata da Vito Sgarra, a sua volta influenzato dall'Avena. A entrambi pareva che l'intera opera fosse una evidente tendenza al classico... Codesti lavori ricordano la scuola di architetti, marmorari e mosaicisti romani. Tommaso Riccardo Bellapianta in alcune sue memorie sulla città di Andria afferma che il normanno Roberto il Guiscardo, avendo distrutto l'antica fortezza longobarda ivi esistente, abbia costruito, grazie ad un ingente tesoro rinvenuto nel territorio fra Andria e Trani, il 1 maggio 1073, un castello da lui denominato "Bellomonte". Successivamente il figlio Ruggero vi avrebbe posto una porta di bronzo tolta a Palermo da suo padre e poi rimossa da Carlo I d'Angiò.

l fantasma della rocca di Monte Sant’Angelo: lo spettro di Bianca Lancia 

 

Secondo le discordi fonti del tempo, Bianca apparteneva alla nobile famiglia Aleramica dei Lancia da parte di madre; forse era figlia di Bonifacio I d’Agliano, conte di Agliano, conte di Mineo e signore di Paternò, e di una Bianca Lancia (figlia del marchese piemontese Manfredi I Lancia). Tanto i Lancia, quanto i d’Agliano, aristocratiche famiglie ghibelline del Piemonte, ormai scalzate dal potere dall’ascesa dei Liberi Comuni, avevano cercato miglior fortuna nel Regno di Sicilia del giovane Federico II,  Manfredi II Lancia, zio di Bianca, verso la metà degli anni venti del secolo si trasferì al seguito di Federico II.

A partire dal 1225 Bianca mantenne una relazione illegittima con Federico II, che conobbe in circostanze non determinate, secondo alcuni durante il matrimonio di lui con Jolanda di Brienne.

Si narra di uno spettro, una figura femminile che si aggira tutt’oggi nelle stanze della fortezza dauna. Leggenda vuole che presso il Castello di Monte Sant’Angelo Bianca fosse stata tenuta prigioniera dalla gelosia dell’imperatore. Si racconta di una morte violenta. Bianca Lancia si sarebbe gettata da un torrione del castello di Monte. Un suicidio nato dalla lontananza fisica e sentimentale di Federico II, distratto da altri impegni e bellezze femminili.

Noi sappiamo che non fu così…

Bianca fu sposata dal suo sovrano in articulo mortis, dopo avergli dato tre figli. Si dice che Bianca, quarta moglie di Federico fu la sola donna da lui veramente amata, ma ancora oggi c’è chi giura che la figura della regina triste, così era chiamata Bianca Lancia, s’intraveda tra le mura del castello durante i gelidi pomeriggi invernali e i suoi lamenti siano ancora udibili dagli abitanti del luogo.

La dama bianca del Gargano, i lamenti, i fiori

Fantasmi in Capitanata: è di Bianca Lancia lo spettro di Monte Sant'Angelo?

La bella dama che apparirebbe nel castello pugliese – in questi casi il condizionale è d’obbligo – può essere considerata lo spettro più famoso nella provincia di Foggia ed anche in tutta la regione.
Però, l’affermazione è fin troppo assoluta e forse è il caso di sfumarla, perchè ogni paese ha il suo fantasma da proporre come il “più famoso in Puglia” e sarebbe giusto evitare conflitti di campanile.
Non foss’altro perché Rignano, ad esempio, di spettri ne vanta addirittura tre, le streghe di Lamasecca, e sono molto vendicative.
Cerignola ha il Fatone e quello è davvero tremendo.
Sicchè, per evitare gelosie, ci si limiterà a dire che la Dama Bianca di Monte Sant’Angelo è un fantasma molto conosciuto e la storia è molto delicata, se così si può dire, parlando di manifestazioni spettrali.

Il castello lassù, sul balcone naturale del Gargano, si dice abitato da una presenza misteriosa.
Talvolta, una figura lattiginosa circolerebbe nottetempo sulla rocca federiciana.

Il fantasma del Castello di Monte Sant'Angelo

 

 
 

La diceria popolare, rilanciata però da fonti rispettabili e messa in circolazione anche su Internet, attribuisce le apparizioni a Bianca Lancia, amante e poi moglie in punto di morte di Federico II, a lungo reclusa nelle fortezze pugliesi per la gelosia del Puer Apuliae.
Di sicuro la bella signora dimorò anche sul Gargano, reclusa di fatto ma padrona di diritto (il feudo le era stato donato dal sovrano).

 

Quanto alla morte nella rocca è solo una leggenda, visto che diverse località – non ultima Gioia del Colle, con un altro maniero federiciano - si contendono d’aver ospitato il presunto suicidio.

Comunque, la versione garganica vuole che la regina si sia gettata dal torrione, affranta dalla lontananza fisica e sentimentale dal marito, distratto da altri impegni e bellezze femminili.
Invece sappiamo che Federico l’ha sposata in articulo mortis, perciò di che trascuratezza si parla?
Tornando al fantasma di Monte Sant’Angelo, oltre alla figura che si materializzerebbe tra le rocce, si vogliono interpretare come gemiti di Bianca i suoni lamentosi generati dai venti invernali tra le antiche mura.
È sempre legata alla regina triste la pianta selvatica che cresce tra le pietre alla base della costruzione.
Un vegetale bianco, ch’è poi il colore della veste indossata al momento di lasciarsi cadere nel vuoto.
Un fantasma gentile e malinconico nella fortezza dauna.
Può capitare di molto più oscuro e però altrettanto intrigante.

 

 
La Torre del castello di Monte Sant'Angelo

Il castello di Monte Sant'Angelo, localizzato nell'area del Parco Nazionale del Gargano, può essere descritto come una ''narrazione storica'' plurisecolare, che ancora oggi testimonia l'alternarsi di dominazioni, popoli e stili architettonici.

La prima struttura della fortificazione fu realizzata dai Longobardi. Sotto la dominazione normanna furono edificate la torre dei Giganti e la ''torre Quadra'', mentre Federico II di Svevia fece costruire la cosiddetta ''sala del tesoro''.

L'attuale fortificazione evidenzia soprattutto l'influenza degli Aragonesi che, per difendersi dai nemici, realizzarono il torrione a forma di mandorla e il fossato che precede il portale di ingresso.

 

Particolare del Castello di Monte Sant'Angelo nel Gargano
 

Le origini del castello sono da ricondurre alla figura di Orso I, vescovo di Benevento e Siponto, che lo volle edificare per difendere il santuario dell'Arcangelo e offrire ricovero ai pellegrini.

 

 

l’acquedotto del Triglio, a Taranto

 

Taranto. Secondo una leggenda il poeta e stregone Virgilio sarebbe passato per Taranto dove avrebbe avuto una disputa con alcune streghe per il dominio della città. Virgilio, per conquistare la benevolenza dei Tarantini, con l’aiuto del diavolo, costruì in una sola notte l’acquedotto del Triglio. Le streghe avendo visto che cosa il poeta era riuscito a fare tentarono, a loro volta di amicarsi gli abitanti di Taranto realizzando l’acquedotto di Saturo. Giunte a metà dell’opera, abbandonarono il lavoro quando seppero che in città si stavano celebrando i festeggiamenti di ringraziamento a Virgilio che aveva portato l’acqua in una città da tempo sofferente a causa della siccità.