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IANUARIO La vera storia di S.Gennaro protettore di Napoli.

  Pochi sanno che Ianuario era il vero nome di S.Gennaro. Discendeva, infatti dalla famiglia gentilizia Gens Januaria sacra al bifronte dio Giano. Qundi Gennaro (trasformazione napoletana di Ianuario) non era il suo nome, bensì il cognome. Fonti non...

Niccolò Pesce

Niccolò era un bambino che amava starsene sempre in mare, facendo arrabbiare sua madre, la quale un giorno nel calore dello sdegno gli gettò la maledizione, che "potesse diventar pesce", e da pesce o quasi pesce egli visse da allora, capace di trattenersi ore e giorni...

Maria Puteolana, la prima donna guerriero

  Maria Puteolana, la prima donna guerriero     Napoli era un attivissimo centro culturale durante il 1300. Petrarca vi si recò per incontrare Roberto d'Angiò,    uno dei sovrani che il poeta stesso definì il più colto d'Europa. Dobbiamo...

La villa dei misteri

Via Cruoccolo è una delle più fatiscenti vie del più fatiscente quartiere di Napoli. L'area fu dichiarata "non edificabile" da un Regio Decreto del 1889, "in quanto" - così si legge negli atti ufficiali - "costituita da terreno palustre, fortemente friabile, soggetta a eventuali smottamenti e...

Megaride

 



Là dove il mare del Chiatamone è più tempestoso, spumando contro le nere rocce, che sono le inattaccabili fondamenta del Castello dell'Ovo, dove lo sguardo malinconico del pensatore scopre un paesaggio triste che gli fa gelare il cuore, era altre volte, nel tempo dei tempi, cento anni prima della nascite del Cristo Redentore, una isola larga e fiorita che veniva chiamata Megaride o "Megara", che significa grande, nell'idioma di Grecia. Quel pezzo di terra s'era staccato dalla riva Platamonia, ma non s'era allontanato di molto: e quasi che il fermento primaverile passasse dalla collina all'isola, per onde del mare, come la bella stagione coronava di rose e di fiori d'aranci il colle, così l'isola fioriva tutta in mezzo al mare, come gigantesco gruppo di fiori che la natura vi facesse sorgere, come un altare elevato a Flora, la olezzante dea. Nelle notti estive dall'isola partivano lievi concerti e sotto il raggio della luna, pareva che le ninfe marine, ombre leggere danzassero una forza sacra ed inebriante; onde il passante della riva, colpito dal rispetto alla divinità; torceva gli occhi allontanandosi, e le coppie di amanti cui era bello errare abbracciati sulla spiaggia, davano un saluto all'isola e chinavano lo sguardo per non turbare la sacra danza.
Certo l'isola doveva essere abitata, nei suoi cespugli verdi, nei suoi alberi, nei suoi prati, nei suoi canneti, dalle Nereidi e dalle Driadi: altrimenti non sarebbe stata così gaia sotto il sole, così celestiale sotto il raggio lunare, sempre colorita, sempre serena, sempre profumata.
Era divina, per gli dei che l'abitavano. Ma Lucullo, il forte guerriero, l'amico dei letterati, il primo fra gli epicurei, abituato a soddisfare ogni capriccio, amava le ville circondate in ogni parte dall'acqua. Egli era mortalmente stanco della sua splendida casa di Roma, della sua villa di Baia, della sua villa di Tuscolo, della sua villa di Pompei. Volle quella di Megaride e l'ebbe. Egli violò la dimora delle ninfe oceanine, per farsene la propria dimora. Egli volle per sè i prati, i boschetti di rose, i margini che digradavano lievemente nel mare; scacciò le sirene e vi mise le sue bellissime schiave. Fu un pianto per le grotte di corallo, tra le alghe verdi; e le Ninfe si lamentarono con Poseidone, che non dette loro ascolto.
Fu costruita la magnifica villa, sorsero per incanto i giardini degni di un imperatore, nei vivai vi guazzarono le murene dalla brutta testa di serpente e dalla carne delicata, nelle uccelliere saltellarono i più rari uccelli, pasto di stomachi finissimi: sotto i portici della villa suonarono le cetre e le tiorbe, in onore di Servilia, sorella di Catone, moglie di Lucullo, bellissima fra le donne romane. Ivi danze festose, luminarie magiche, giochi, banchetti, come solo Lucullo sapeva darne. Ivi profumi di nardo, coppe di nitido cristallo, nel cui vino generoso si scioglievano le perle; ivi toghe di porpora, pepli di bisso, gemme splendide, corone di rose; l'eterno cantico alla bellezza ed all'amore.
Ivi accorrevano per riscaldarsi alla luce degli occhi di Servilia, i giovanetti timidi che non osavano pronunziare parola dinanzi a lei, i gagliardi garzoni la cui parola superava d'audacia lo sguardo, gli uomini maturi e gravi che sorridevano ancora all'amore, i vecchioni che sospiravano la gioventù: e Servilia rideva, giovane e gaia, di questo incenso d'amore, rideva sempre, lusinghiera e crudele come una sirena: e Lucullo, placido filosofo e ancor più placido sposo godeva dei trionfi di Servilia. Egli amava le feste sontuose, che duravano dalla sera sino ai primi albori, i pranzi lunghissimi dove nettare si alterna a nettare, dove la fantasia del cuoco vince quella di un poeta e fonde nel suo crogiuolo le ricchezze di un re; egli amava conversare con i letterati, cui donava vasi d'oro e animali preziosi e case e giardini, per provar loro la generosità di un privato.
Servilia saliva la china ridente del piacere ed egli discendeva, tranquillo, verso la pace della vecchiaia.
Per divertirsi, faceva scavare un canale d'acqua viva, faceva elevare una palazzina, scacciava lontano il mare, allargando i limiti dell'isoletta di Megaride; Servilia si lasciava profumare dalle ornatrici, prendeva bagni di latte d'asina, portava alle gentili orecchie due pesanti perle che le laceravano la carne, le sue tuniche parevano tessute d'aria, i suoi sandali costavano prezzi favolosi: ed ella, assisa davanti alla spera d'acciaio si contemplava.
Ella era nel trionfo della bellezza e della gioventù.
Gli occhi ardenti di coloro che l'amavano le davano un'aureola di fuoco, in cui ella camminava, graziosa salamandra, senza scottarsi; i sospiri di coloro che l'amavano, formavano attorno a lei una nuvola, in cui le piaceva di respirare.
Il mare batteva dolcemente sulle sponde di Megaride e non osava tumultuare; il sole l'accarezzava senza violenza e le aure leggiere ne facevano ondeggiare i fiori; nella placida luce lunare, l'isola sembrava tutta bionda, morbida e dolce, in una infinita dolcezza d'aria e di tinte. E Servilia, distesa sul lettuccio, vestita di stoffa tessuta d'oro, lasciandosi sventolare dalle schiave, fremendo di piacere alla brezza marina, guardando distrattamente la ridda delle danzatrici, mormorava fra sè: sono io, sono io la sirena! E l'aria mormora anch'essa, dopo aver scherzato con le chiome olezzanti: è lei, è lei la sirena.
Servilia, quando solleva un fascio di fiori, è bella come Flora; Servilia, quando sceglie in un cestello una pesca matura, è bella quanto Pomona; Servilia, quando porta sui capelli la brillante mezzaluna e al fianco la faretra, è bella quanto Diana; quando, senza ornamenti, coi capelli disciolti, uscendo dal bagno, tutta stillante profumi, si lascia asciugare dalle schiave e s'avvolge nella tunica bianca, è... -bella come una Venere- sussurra lo schiavo innamorato. - Più bella di Venere- dice, col suo olimpico orgoglio , Servilia.
Il che è udito dalle attente Ninfe oceanine e Venere sa che Servilia l'ha offesa, e Poseidone questa volta dà ascolto alla preghiera della sua bella amante.
Rosicchia, rosicchia o polipo molle, rossastro, rassomigliante ad un cencio.
Incrostati, incrostati, ostrica, per minare le fondamenta! Piantati, piantati, alga, per strappar via una zolletta di terreno! Scavate, scavate, o piccoli animaletti del corallo! Rodi la roccia, o costante onda marina, fa un buco coperto di arena, coperto di piante, un buco perfido, nero e profondo! Rodete, rodete, piccole pazienti potenze del mare!
Piansero le Nereidi, piansero le Sirene, Venere fu offesa e Poseidone è in collera.
Servilia ride e gorgheggia. Lucullo è alla sua villa di Tuscolo. Ella è stupenda di bellezza e la sua vita è un dono altissimo. La vita dell'amore, nella ricchezza, nel lusso, nei piaceri più delicati, nelle follie più costose.
Essere giovane, essere piena di salute, essere ricca, essere felice, essere ammirata, festeggiata, amata, idolatrata. Ma il mare rumoreggia sordamente, la terra si scuote, un orribile scricchiolio s'ode, un grido feroce sale al cielo, le onde sorgono in tempesta, e l'isola Megaride scompare nel vortice delle acque, inghiottita con la villa, coi giardini, coi vivai, colla bellezza e l'orgoglio  di Servilia.
- Libiamo agli dei infernali - disse tranquillamente Lucullo, nella sua villa di Tuscolo, al funesto annunzio, e sparse sul terreno alcune gocce dell'inebriante liquore.
Vuoi tu scandagliare la profondità del mare, o ardito palombaro? Sei tu stanco delle sirene della terra? Va sulla spiaggia brulla del Chiatamone, raccogli il tuo respiro e precipitati nelle acque: in un momento giunto al fondo, vedrai gli archi della villa, i giardini di Lucullo e la bellissima moglie, che è diventata la sirena del mare. Ma non ti lasciar sedurre dalla visione e ritorna a galla, o palombaro ardito: sulla terra troverai sirene come Servilia, che non ti possano amare e ti facciano morire dal dolore.

Il Principe di Sansevero

Don Raimondo di Sangro - Principe di San Severo


Nato a Torremaggiore (Foggia) nel 1710 e morto a Napoli nel 1771.

La grande Scuola Alchemica Napoletana, che coinvolse e coinvolge studiosi di provato valore scientifico ed operò importantissime ricerche riguardanti i metalli e le loro proprietà ha il più noto rappresentante in Don Raimondo di Sangro, duca di Torremaggiore e principe di Sansevero, tra i massimi scienziati napoletani, indagatore ostinato ed elegante  dei più diversi segreti della natura. Le sue scoperte spaziano dalla tipografia simultanea a più colori (irrealizzabile con le cognizioni dell'epoca) alla balistica, alle proprietà dei metalli, alla decifrazione di linguaggi esoterici usati degli Indios del Perù, a preparati che indurivano le materie molli metallizzandole e pietrificandole (alcuni marmi esistenti nella sua celebre cappella sono di origine alchemica) o rendevano "a freddo" plastico il ferro e altri metalli.
Grande anatomista, operò una "ricostruzione" delle reti venose del corpo umano con l'aiuto del suo allievo Salerno. Ispiratore delle sculture "esoteriche" della citata cappella, fu Gran Maestro "pentito" della Massoneria napoletana e celò sotto l'aspetto di "chimico-filosofo" la sua vera identità di iniziato ed alchimista.
Raimondo di Sangro divenne principe di Sansevero molto presto, avendo ereditato il titolo, e le notevoli rendite che comportava, direttamente dal nonno Paolo, sesto principe di Sansevero, per la rinuncia al titolo del padre Antonio, vedovo, che dopo una vita alquanto dissoluta aveva rinunciato ai piaceri mondani per vestire l'abito sacerdotale, consentendo così al giovane Raimondo di divenire il settimo principe della casata di Sansevero di Sangro, che ebbe come capostipite e primo principe (1587) Gianfrancesco, "Cecco" di Sangro.
L'antichissima stirpe dei conti dei Marsi e di Sangro, vantava una discendenza borgognona dallo stesso Carlo Magno; infatti lo stemma dei di Sangro è lo stemma dei discendenti dei duchi di Borgogna, che fondevano le stirpi carolingia, longobarda e normanna. Legatissima al potente Ordine Benedettino, la Casa di Sangro vanterà, oltre ad abati ed altissimi prelati, anche i santi Oderisio, Bernardo e Rosalia. Legati da vincoli di parentela con la potente casata furono quattro pontefici: Innocenzo III (1198-1216), Gregorio IX (1227-1241), che istituì la famigerata Santa Inquisizione contro l'ammissione della quale nel regno di Carlo di Borbone si battè proprio il lontano discendente Raimondo di Sangro, Paolo IV Carafa (1555-1559) e Benedetto XIII (1724-1730). Proprio attraverso S. Bernardo la Casa si legò all'Ordine Templare e ciò ci interessa per quanto riguarda il cammino iniziatico celato nella cappella di famiglia, quella Pietà dei Sangro di Sansevero, capolavoro dell'ultimo barocco napoletano, voluta dal principe che rinnovò una precedente cappella come tempio di famiglia, chiamando a Napoli gli scultori Queirolo e Corradini accanto ai napoletani Sammartino, Celebrano, Persico e i pittori F. M. Russo e C. Amalfi. Artisti che si limitarono ad eseguire la particolare iconografia ideata dal principe, che fornì anche marmi e colori "alchemici". Scrive Gennaro Aspreno Galante, fonte assolutamente attendibile nel 1872 : " ... egli costruì il cornicione ed i capitelli dei pilastri con un mastice da lui formato che parea madreperla...". Le bellissime sculture della cappella Sansevero, che ornano i sepolcri degli antenati, soprattutto dei genitori del principe, sono perfette espressioni di una simbologia massonica-templare-rosacrociana di tale pregnanza ed impatto visivo che lasciano, anche nel visitatore profano, l'impronta indelebile di un "messaggio" che se pur non recepisce, "avverte" con forza.
Non tutti sanno che la zona sulla quale sorge il tempio della Pietà dei Sangro  faceva parte del quartiere nilense, abitato dagli Alessandrini d'Egitto, dove, nel tempio, si venerava la statua "velata" della dea Iside. La cappella, questo fondamentale "Libro di Pietra" della conoscenza, sorge quindi sul "luogo di forze" scelto dai primi sacerdoti alessandrini custodi della tradizione egizia di Neapolis. Nel suo palazzo "legato" da un passaggio aereo (oggi purtroppo distrutto e dal quale si scendeva nella cappella) il principe volle la sua officina di alchimista-scienziato, dove sperimentò dall'impermeabilizzazione dei tessuti a quel Lume Eterno che avrebbe dovuto per sempre rifulgere nella cripta sotterranea ai piedi del Cristo morto.
Tutta la simbologia del tempio desangriano si ispira all'antica simbologia del Ripa (uno studioso che aveva fissato i canoni simbolici della Fortuna, Fortezza, Sapienza, Fede, Astronomia, Matematica, ecc.. Quasi sempre figure femminili con "oggetti" simbolici come : caducei, cornucopie, fiori, cuori, fiammelle, libri, compassi, genietti, il tutto rigorosamente spiegato nel suo testo usato per secoli dagli illustratori e dagli artisti in genere) con "innovazioni" che l'antico testo iconografico non contemplava come nel caso del Cristo velato.
Purtroppo di quanto era contenuto nella casa del principe di Sansevero (e che si trova minutamente descritto nelle varie edizioni della "Breve Nota di quel che si vede in casa del Principe di Sansevero Raimondo di Sangro" edite tra il 1766 e il 1769 e conservate nella Biblioteca Nazionale di Napoli, delle quali le prime due, del 1766 e del 1767, sono introvabili. La stessa famiglia del principe impaurita dalla censura papale e della "imposta" abiura del principe che consegnò alcuni elenchi di "fratelli" al pontefice e volendo far placare il gran rumore che si era fatto intorno a questa "abiura" che fece temere anche la vendetta di massoni ritenutisi traditi e abbandonati dallo stesso Gran Maestro, distrussero tutto quanto potesse collegare la memoria di Raimondo al mondo occulto. Ne fecero le spese tutte quelle realizzazioni scientifiche che avrebbero potuto di molto affrettare la scoperta di molti ritrovati odierni già ottenuti alchemicamente dal Sansevero. resta la inquietante testimonianza delle sue "macchine" anatomiche conservate dal principe in un'apposita stanza del suo palazzo dall'indicante nome di "appartamento della fenice" ed oggi in quella cripta ovale, che don Raimondo aveva prevista imitante una grotta naturale, necessaria per la meditazione degli apprendisti e poggiante su terra battuta, senza pavimentazione, per non impedire quelle vibrazioni naturali provenienti dal "luogo" isiaco sottostante e sorretta da otto ( numero fondamentale della ritualità templare che si ripete spesso nell'armonia "numerica" della cappella stessa) pilastri che dovevano definire il posto delle sepolture degli avi intorno al "mistero Magistrale" del Cristo velato. Queste due preparazioni sono un vero e proprio "testo" medico-anatomico, costruite su due scheletri (maschile e femminile) strutturando organi "induriti" da preparati distillati dal Maestro con "ricostruzioni" di sostegno  ottenute e colorate con materiali "alchemici" sempre provenienti dall'officina del Sansevero.
Ancora un ultimo accenno allo scomparso passaggio che il principe aveva voluto per discendere dal palazzo alla cappella, e che presentava sui due lati un orologio dotato di un particolare impianto di carillon a campane ospitato nel tempietto rituale (che ancora si trova in alcune, interessanti, costruzioni antiche), particolare "faro" per indicare "a chi aveva occhi ed orecchie" il sito iniziatico. Il tempietto era ottagonale ed otto erano le colonne che ne reggevano la cupoletta; il mirabile meccanismo ideato dal principe, che vi era nascosto, permetteva di eseguire qualsiasi motivo percuotendo col pugno una serie di grossi tasti rotondi che corrispondevano ai vari suoni delle campane. Anche questa meraviglia meccanica del genio creativo "minore" del principe fu abbattuta dai famigliari dopo la sua morte per far sedimentare l'imbarazzante ricordo della fama stregonesca del parente "grande iniziato".

La leggenda dei «mari di Napoli»

 
 Quando il Signore ebbe dato a noi il nostro bel golfo, udite quello che la sacrilega leggenda gli fa dire: uditelo voi anima glaciale e cuore inerte.
Egli disse: Sii felice per quello che t' ho dato; e se non lo puoi, se l'incurabile dolore ti strazia l'anima, muori nelle onde glauche del mare.
Ognuno sa che Iddio, generoso, misericordioso e, magnifico Signore, ha guardato sempre, con un occhio di predilezione, la città di Napoli.
Per lei ha avuto, tutte le carezze di un padre, di un innamorato, le ha prodigato i doni più ricchi, più splendidi che si possano immaginare. Le ha dato il cielo ridente ed aperto, raramente turbato da quei funesti pensieri scioglientisi in lagrime, che sono le nubi; l'aria leggiera, benefica e vivificante, che mai non diventa troppo rude, troppo tagliente; le colline verdi, macchiate di case bianche e gialle, divise dai giardini sempre fioriti; il vulcano fiammeggiante ed appassionato; gli uomini belli, buoni, indolenti, artisti ed innamorati; le donne piacenti, brune, amabili e virtuose; i fanciulli ricciuti, dai grandi occhi neri ed intelligenti.
Poi, per suggellare t
anta grazia, le ha dato il mare. Ma si soggiunge che il Signore Iddio dandole il mare, ha saputo quel che si faceva.
Quello che sarebbero i Napoletani, quello che vorrebbero, egli conosceva bene, e nel dar loro la felicità del mare, ha pensato alla felicità di ognuno. Questo immenso dono è saggio, è profondo, è caratteristico. Ogni bisogno, ogni inclinazione, ogni pensiero, ogni fibra, ogni fantasia, trova il suo cantuccio dove s'appaga: il suo piccolo mare nel grande mare.
Del passato, dell'antichissimo passato, è il mare del Carmine poco distante dalla spiaggia, è l'antica porta di mare, che introduce alla piazza; sulla piazza storicamente famosa, si eleva il bruno campanile, coi suoi quattro ordini a finestruole, che lo fanno rassomigliare stranamente al giocattolo grandioso di un bimbo gigante; le casupole, attorno, sono basse, meschine, dalle finestre piccole, abitate da gente minuta.
Il mare del Carmine e scuro, sempre agitato, continuamente tormentato. Sulla spiaggia, semideserta, non vi è l'ombra di un pescatore.
Vi si profila qua e là la linea curva di una chiglia; la barca è arrovesciata, si asciuga al sole. Dinanzi alla garitta passeggia un doganiere, che ha rialzato il cappuccio per ripararsi dal vento che vi soffia impetuoso. Presso la riva una barcaccia nera, stenta a mantenersi in equilibrio; dal ponte, per mezzo di tavole, è stabilita una comunicazione con la terra; vi vanno e vengono facchini, curvi sotto i mattoni rossi che scaricano a riva. Ma non si canta, nè si grida. Il mare del Carmine non scherza. In un temporale d'estate, portò via un piccolo stabilimento di bagni; in un temporale d'inverno allagò la Villa del Popolo, giardino infelice, dove crescono male fiori pallidi e alberetti rachitici. Qualche cosa di solenne, di maestoso vi spira. Il mare del Carmine era l'antico porto di Parthenope, dove approdavano le galee fenicie, greche e romane, ma era porto mal sicuro; esso ha visto avvenimenti sanguinosi e feste popolari. E un mare storico, poetico e cupo. Sulla piazza che quasi esso lambiva, dieci, venti volte sono state decise le sorti del popolo napoletano. Le onde sue melanconiche hanno dovuto mormorare per molto tempo: Corradino, Corradino. Le onde sue tempestose, hanno dovuto ruggire per molto tempo: Masaniello, Masaniello. E il mare grandioso e triste degli antichi, che sgomenta le coscienze piccine dei moderni. La sola voce del flutto rompe il silenzio che vi regna e qualche coraggioso, solitario e meditabondo spirito vi passeggia, curvando il capo sotto il peso dei ricordi, fissando l'occhio sulla vita di quelli che furono. Ma ferve la gente e ferve la vita sul mare del Molo. Non è spiaggia, è porto quieto e profondo. L'acqua non ha onde, appena s'increspa; è nera, a fondo di carbone, un nero uniforme e smorto, dove nulla si riflette. Sulla superficie galleggiano pezzi di legno, brandelli di gomene, ciabatte sformate e sorci morti. Nel porto mercantile si stringono, l'una contro l'altra, le barcacce, gli schooners, i brigantini carichi di grano, di farina, di carbone, d'indaco; non vi è che una piccola linea d'acqua sporca, tra essi. Sul marciapiede una gru eleva nell'aria il suo unico braccio di ferro, che s'alza e s'abbassa, con uno stridore di lima. Uomini neri di sole, di fatica e di fumo, vanno, vengono e discendono. Un puzzo di catrame è nell'aria. Sulla banchina nuova, nel terrapieno, sono infissi cannoni a cui s'attorcigliano intorno grossissime gomene, che danno una sicurezza maggiore ai vapori postali, ancorati in rada. A destra c'è il porto militare, medesimo mare smorto e sporco, dove rimangono immobili le corazzate. Dappertutto barchette che sfilano, zattere lente, imbarcazioni pesanti; le voci si chiamano, si rispondono, s'incrociano. Il sole rischiara tutto questo, facendo brulicare nel suo raggio polvere di carbone, atomi di cotone, limature di ferro; la sera, l'occhio del faro sorveglia il Molo. Il mare del Molo è quello dei grossi negozianti, dei grossi banchieri, degli spedizionieri affaccendati, dei marinai adusti, degli ufficiali severi che corrono al loro dovere, dei viaggiatori d'affari che partono senza un rimpianto. E' per essi, che il Signore ha fatto il lago nero del Molo.
Del popolo e pel popolo é il Mare di Santa Lucia. E' un mare azzurro cupo, calmo e sicuro. Una numerosa e brulicante colonia di popolani, vive su quella riva. Le donne vendono lo spassatiempo, l'acqua sulfurea, i polipi cotti nell'acqua marina; gli uomini intrecciano nasse, fanno reti, pescano, fumano la pipa, guidano le barchette, vendono i frutti di mare, cantano e dormono. E un paesaggio acceso e vivace. Le linee vi sono dure e salienti; il sole ardente vi spacca le pietre. Si odora un profumo misto di alga, di zolfo e di spezierie soffritte. I bimbi seminudi e bruni si rotolano nella via e cascano nell'acqua, risalgono alla superficie, scotendo il capo ricciuto e gridando di gioia. Sulla riva un'osteria lunga, mette le sue tavole dalla biancheria candida, dai cristalli lucidi, dall'argenteria brillante. Di sera vi s'imbandiscono le cene napoletane. Suonatori ambulanti di violino, di chitarra, di flauto improvvisano concerti; cantatori affiochiti si lamentano nelle malinconiche canzonette, il cui metro è per lo più lento e soave, o la cui allegria ha qualche cosa di chiassoso e di sforzato, che cela il dolore; accattoni mormorano senza fine la loro preghiera; le donne strillano la loro merce. D' estate un vaporetto scalda la sua macchina per andare a Casamicciola, i barcaiuoli offrono con insistenza, a piena voce, in tutte le lingue, ai viaggiatori il passaggio fino al vaporetto. Dieci o dodici stabilimenti di bagni a camerini piccoli e variopinti; si asciugano al sole, battute dal ponente, le lenzuola; le bagnine hanno sul capo un fazzoletto rosso e fanno solecchio con la mano. Una folla borghese e provinciale assedia gli stabilimenti, scricchiolano le viottole di legno. Salgono nell'aria serena, canti, suoni di chitarra, trilli d'organino, strilli di bimbi, bestemmie di facchini, rotolio di trams, profumi e cattivi odori; rifulgono i colori rabbiosi e mordenti; fiammeggiano le albe riflesse sul mare; fiammeggiano i meriggi lenti e voluttuosi, riflessi sul mare; s'incendiano i tramonti sanguigni, riflessi sul mare che pare di sangue. E' il mare del popolo, mare laborioso, fedele e fruttifero, mare amante ed amato, per cui vive e con cui vive il popolo napoletano.
Eppure a breve distanza, tutto cangia d'aspetto. Dalla strada larga e deserta, si vede il mare del Chiatamone la vista si estende per quel vastissimo piano, si estende quasi all'infinito, poiché è lontanissima la curva dell'orizzonte. Quel piano d'acqua è desolato, è grigio. Nulla vi è d'azzurro e la medesima serenità ha qualche cosa di solitario che rattrista. Le onde si frangono contro il muraglione di piperno con un rumore sordo e cupo, lontano, gli alcioni bianchi bianchi ne lambiscono le creste spumanti. A sinistra s'eleva sulla roccia il castello aspro, ad angoli scabrosi, a finestrelle ferrate; il castello spaventoso dove tanti hanno sofferto ed hanno pianto; il castello che cela il Vesuvio. Contro le sue basi di scoglio, le onde s'irritano, si slanciano piene di collera e ricadono bianche e livide di rabbia impotente. Quando le nuvole s'addensano sul cielo e il vento tormentoso sibila fra i platani della villetta, allora la desolazione è completa, è profonda. Di lontano appare una linea nera: è una nave sconosciuta, che fugge verso paesi ignoti. Alla sera passa lentamente qualche barca misteriosa che porta una fiaccola di luce sanguigna a poppa e che mette una striscia rossa nel palpito del mare: sono pescatori che incantano il pesce. In quelle acque un giovanotto nuotatore, bello e gagliardo, vinto dalle onde, invano ha, chiamato aiuto ed è morto affogato; in una notte d'inverno una fanciulla disperata ha pronunciata una breve preghiera e si è slanciata in mare, donde l' hanno tratta, orribile cadavere sfracellato e tumefatto. E' il mare del Nord, con la sua mestizia, la sua vastità, deserta, i suoi scogli lacerati, il metro piangente dell'onda; è il mare del Nord coi suoi fantasmi, con le sue nebulosità.
E` il mare che Dio ha fatto per i malinconici, per gli ammalati, per i nostalgici, per gl'innamorati dell'infinito.
Invece ride il mare di Mergellina; ride nella luce rosea delle giornate stupende; ride nelle morbide notti d'estate, quando il raggio lunare pare diviso in sottilissimi fili d'argento; ride nelle vele bianche delle sue navicelle, che paiono giocondi pensieri aleggianti nella fantasia. Sulla riva scorre la fontana, con un cheto e allegro mormorio; i fanciulli e le fantesche in abito succinto vengono a riempir le loro brocche. Un yacht elegante dall'attrezzeria sottile come un merletto, dalle velette candide orlate di rosso, si culla mollemente come una creola indolente, porta il nome a lettere d'oro, il nome dolce di qualche creatura celestiale e bionda: Flavia.
Uno stabilimento di bagni, piccolo ed aristocratico, si congiunge alla riva per una breve viottola; sulla viottola passano le belle fanciulle vestite di bianco, coi grandi cappelli di paglia coperti da una primavera di fiori, cogli ombrellini dai colori splendidi che si accendono al sole; passano le sposine giovanette, gaie e fresche, attaccate al braccio dello sposo innamorato; i bimbi graziosi, dai volti ridenti e arrossati dal caldo. E nel mare, giù è un ridere, uno scherzare, un gridio fra il comico spavento e l'allegria dell'acqua fredda, e corpi bianchi che scivolano fra due onde e braccia rotonde che si sollevano e volti bruni dai capelli bagnati. E' la festa di Mergellina, di Mergellina la sorridente, fatta per coloro cui allieta la gioventù, cui fiorisce la salute, fatta pei giovani che sperano e che amano, fatta per coloro cui la vita e una ghirlanda di rose che si sfogliano e rinascono sempre vive e profumate.
Ma il mare dove finisce il dolore è il mare di Posillipo, il glauco mare che prende tutte le tinte, che si adorna di tutte le bellezze. Quanto può ideare cervello umano per figurarsi il paradiso, esso lo realizza. E`l'armonia del cielo, delle stelle, della luce, dei colori, l'armonia del firmamento con la natura: mare e terra. Si sfogliano i fiori sulla sponda, canta l'acqua penetrando nelle grotte, l'orizzonte è tutto un sorriso. Posillipo è l'altissimo ideale che sfuma nella indefinita e lontana linea dell'avvenire; Posillipo è tutta la vita, tutto quello che si può desiderare, tutto quello che si può volere. Posillipo è l'immagine della felicità piena, completa, per tutti i sensi, per tutte le facoltà. E' la vita vibrante, fremente, nervosa e lenta, placida ed attiva. E' il punto massimo di ogni sogno, di ogni poesia. Il mare di Posillipo è quello che Dio ha fatto per i poeti, per i sognatori, per gl'innamorati di quell'ideale che informa e trasforma l'esistenza.

 

Palazzo Donn'Anna

 

Palazzo Donn'Anna è un grosso palazzo grigio  che si erge nel mare di Posillipo.
Non è diroccato, ma non è stato mai finito, le sue finestre alte, larghe, senza vetri, rassomigliano ad occhi senz'anima.
Di notte il palazzo diventa nero e cupo e sotto le sue volte s'ode solo il fragore del mare.
Tanti anni fa, invece, da quelle finestre splendevano le vivide luci di una festa, attorno al palazzo erano ormeggiate tante barchette ado
rne di velluti e di lampioncini colorati. Tutta la nobiltà spagnola e napoletana accorreva ad una delle magnifiche feste che, l'altera Donna Anna Carafa, moglie del duca di Medina Coeli, dava nel suo palazzo.
Nelle sale andavano e venivano i servi, i paggi dai colori rosa e grigio, i maggiordomi; giungevano continuamente bellissime signore dagli strascichi di broccato e riccamente ingioiellate, arrivavano accompagnate dai mariti o dai fratelli, qualcuna, più audace, arrivava con l'amante.
Sulla soglia aspettava i suoi ospiti Donna Anna di Medina Coeli nel suo ricchissimo abito rosso tessuto in lamine d'argento. Era sprezzante ed orgogliosa, godeva senza fine nel ricevere tutti quegli omaggi, tutte le adulazioni. Era lei la più ricca, la più nobile, la più potente, rispettata e temuta.
In fondo al grande salone era montato un teatrino per lo spettacolo. Tutta quella eletta schiera d'invitati doveva assistere prima alla rappresentazione di una commedia, poi ad una danza moresca ed infine avrebbero avuto inizio le danze che si sarebbero protratte fino all'alba. La curiosità era data dal fatto che, secondo la moda francese in voga in quei tempi, gli attori sarebbero stati dei nobili, tra i quali vi era Donna Mercede de las Torres, nipote spagnola della duchessa.

Donna Mercede era bella, giovane, aveva grandi occhi, neri, come i suoi lunghi capelli. Rappresentava la parte di una schiava innam

 

orata del suo padrone, fedele fino alla morte avvenuta per salvare la vita del suo amato.
La fanciulla recitò con trasporto così come Gaetano di Casapesenna che interpretava la parte del cavaliere, anzi quest'ultimo fu c
osì veritiero nella sua recitazione che, quando nell'ultima scena doveva baciare par l'ultima volta il suo sfortunato amore lo fece con tale slancio che la sala intera scoppiò in applausi.
Tutti applaudirono, tranne Donn'Anna, che impallidiva mortalmente e si mordeva le labbra per la gelosia.
Gaetano di Casapesenna era stato, infatti, l'amante di Donn'Anna.
Nei giorni che seguirono le due donne si ingiuriarono più volte violentemente a causa della gelosia di Donn'Anna e del furore giovanile di Donna Mercede.

Un giorno Donna Mercede scomparve, si diceva che fosse stata presa da improvvisa vocazione religiosa e si fosse chiusa in convento.
Gaetano di Casa
pesenna la cercò invano in Italia, Francia, Spagna ed Ungheria, invano pregò, supplicò e pianse ma non la rivide mai più fino a che morì, giovane, in battaglia come si conviene ad un cavaliere.
A palazzo seguirono altre feste ed altri omaggi alla potente duchessa che, però, sedeva sul suo trono con l'anima avvelenata dal fiele e col suo cuore arido e solitario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La leggenda di Castel dell'Ovo

 

Il discorso sull'esoterismo a Napoli si fa molto interessante nel Medioevo normanno e angioino, quando si sviluppò, e vi trovò enorme credito, la teoria di Virgilio il Mago. I rapporti del grande poeta latino con Neapolis sono moltissimi; la città che ancora ne onora la tomba nel parco di Fuorigrotta che porta il suo nome, presenta due diverse direttrici "d'amore": quella colta che riguarda la sua prestigiosa opera letteraria, e quella popolare che lo venera quale Mago- Salvatore della città stessa; il "Liberatore" da varie iatture come, ad esempio, invasione di insetti o serpenti, con l'ausilio di particolari "incantesimi". La testimonianza più affascinante di questa "credenza" resta il nome di "Castel dell'Ovo" alla turrita struttura dell'isolotto di S. Salvatore, la greca Megaride, unita in seguito alla costa (artificialmente) dal Borgo Marinaro. In effetti l'origine del nome resta alquanto misteriosa se non si analizza bene il "nome" stesso. Per prima cosa gli studiosi di alchimia sanno che il termine uovo o meglio uovo filosofico è il nome "esoterico" dell' Athanor, il piccolo forno chiuso, il matraccio di metallo o di un particolare vetro nel quale avveniva la lenta trasmutazione degli elementi primari - zolfo e mercurio - in metallo "prezioso", L'oro alchemico. Operazione iniziatica che definiva, in effetti, una profonda mutazione dello spirito e dell'intelligenza dell'operatore. A Napoli, nel periodo medioevale, fiorisce una grande scuola ermetica che si occupa di alchimia. I processi di "liquefazione", "soluzione" e "calcinazione" sono favoriti da una particolare terra vulcanica offerta dal Vesuvio mentre la distillazione dell'acqua marina era ritenuta l'unico surrogato alla rugiada raccolta nella notte - l'acqua degli alchimisti - che doveva possedere un grado altissimo di "purezza cosmica". Megaride divenne presto, già nell'età classica, rifugio di eremiti che occuparono le piccole grotte naturali ed i ruderi delle costruzioni romane della grande domus luculliana che dalle pendici di Pizzofalcone giungeva all'isolotto di Megaride. I monaci Basiliani riutilizzarono poi le possenti colonne romane per ornare la sala del loro "cenobio", come ancora si può notare visitando Castel dell'Ovo. E' noto che molte ricerche alchemiche avvenivano celate ai più proprio nel segreto di alcuni monasteri medievali ed è confermata la presenza sull'isolotto di monaci alchimisti. In un antico documento, si legge di un antico amanuense che aveva speso tutta la sua esistenza "... nello studio e nella trascrizione di Virgilio...". E le continue e appassionate ricerche operate da studiosi hanno testimoniato più volte la profonda "cultura virgiliana" della classe colta e religiosa napoletana tra il  Medioevo angioino e il Rinascimento aragonese. Infatti si è già accennato a quell'amore particolare dei napoletani per il poeta mantovano.
Virgilio, narrano molte cronache medioevali napoletane, entrò nel castello di Megaride e vi pose un uovo chiuso in una gabbietta che fece murare in una nicchia delle fondamenta, avvisando che alla rottura dell'uovo tutta la città sarebbe crollata. Altre versioni parlano di un uovo sigillato in una "caraffa" di cristallo sempre murata in un luogo segreto del castello con la stessa raccomandazione. Così nasce il nome di "Castel dell'Ovo" che l'isolotto ha sempre conservato, e lo si evince sia dagli scritti antichi che da una radicata tradizione orale. L'ipotesi che ne deriva è questa: Virgilio apprende il metodo di "distillazione" da un seguace dei misteri orfici ancora operante nella campagna napoletana e si procura un recipiente adatto per distillare ed operare nel segreto di "laboratori" ospitati in ville patrizie di nobili che, ottemperando al volere di Mecenate Ottaviano, renderanno al Mantovano del tutto sereno il soggiorno napoletano. Virgilio, che ha studiato proprio a Napoli alla scuola del epicureo Sirone ed ha nel cuore Esiodo e Lucrezio, si addentra sempre di più nella conoscenza segreta della natura iniziandosi ai culti di Cerere e Proserpina allora vivissimi a Neapolis. Ma allora Virgilio è veramente un "mago" pre-alchimi-
sta? Perché Dante Alighieri, il più "iniziato" dei nostri poeti, affiliato per sua stessa ammissione alla setta dei Fedeli d'Amore a Firenze, iscritto alla corporazione de' medici e speziali che ha lasciato il più eccelso ed inquietante libro "esoterico" nella immortale Commedia, ha voluto come "guida" proprio Virgilio
Di certo Napoli l'amò moltissimo, e lo ritenne prima di S. Gennaro protettore a tutto tondo. Tant'è che morto a Brindisi nel 19 a.C. onora da sempre la "tomba" napoletana.

la sirena parthenope

 

le ancelle di Persephone non furono capaci di proteggere la loro padrona dal desiderio di Ade e furono punite da Demetra che le trasformò in mostri metà donne e metà uccello. In un primo momento la trasformazione avrebbe dovuto permetter loro di aiutare Demetra nella ricerca della figlia, ma le fanciulle si stancarono presto e abbandonarono l'intento. Un'altra tradizione vuole che sia stata Afrodite a punirle così per aver manifestato il desiderio di rimanere vergini.
Non sono gli unici esseri con questa caratteristica, anche le arpie sono descritte allo stesso modo. Ciò che differenzia le sirene propriamente dette è che tentano di irretire i naviganti che passano in prossimità dei loro lidi seducendoli con promesse, musiche e canti melodiosi. A Odysseos promisero una conoscenza sovrumana, ben sapendo che altre lusinghe avrebbero trovato l'itacese più sordo.
L'analisi etimologica del loro nome le mette in relazione con demoni solari capaci di addormentare gli equipaggi in alto mare durante la bonaccia estiva e di farli scivolare in acqua: gli uomini tentavano dunque di spiegare eventi che avevano funestato le loro esperienze di precaria navigazione facendo ricorso al soprannaturale.
Ulisse, legato all'albero di maestra, passa accanto agli scogli delle sirene.
Tutto ciò non spiega però come le ancelle di Persephone avessero preso dimora presso gli scogli della costiera amalfitana, oggi noti come “Li Galli” o “Sirenuse”.
Ebbene, le fonti greche e romane raccontano che presso Sorrento sorgesse un tempio alle Sirene (Strabone, I, cc. 22-3), e che sul promontorio di Punta Campanella si ergesse un tempio ad Athena di notevole rinomanza nel Mediterraneo. Alle sacerdotesse del tempio si ricorreva per chiedere vaticini, cosa singolare dal momento che in tutto l'arco del Mediterraneo il nume tutelare dei vaticini è Apollo Febo, il Sole, che tutto vede col suo occhio luminoso, proprio come Ra/Horus.
Nel passaggio di Odysseo davanti al promontorio di Punta Campanella, Omero abbia voluto ricordare il pericolo che rappresentavano, per i naviganti greci da lui metaforizzati nell'itacese costantemente alla ricerca di nuove conoscenze, le sacerdotesse ad Athena dotate di arcano sapere. La curiosità avrebbe irretito questi uomini al punto di non farli più tornare a casa.
tutta l'Odissea è piena di simili pericoli: dopo una tempesta di nove giorni, le navi di Ulisse approdano all'isola dei Lotofagi, dove gli uomini dimenticano del tutto la loro patria sotto l'influsso dei cibi loro provvisti dagli indigeni; Circe trattiene l'eroe ed i suoi uomini per un anno intero (concependo un figlio da Odysseo); quindi Ulisse trascorre cinque anni con Calypso su Ogygia (i suoi uomini sono tutti naufragati presso Cariddi). Se l'Odissea è un racconto sui pericoli di chi va per mare, il semplice attardarsi su coste lontane va certamente annoverato tra questi.
Sembra che la sorte delle sirene, qualora un mortale fosse passato dinanzi alle loro coste senza cedere alle loro lusinghe, fosse la morte, ed è presentendo giungere la morte che, si dice, Parthenope prese il volo dai suoi scogli e andò verso nord. Con gli ultimi battiti d'ali giunse in vista dell'isolotto di Megaride (l'attuale Castel dell'Ovo), dove si lasciò cadere.
Cosa accadde dopo non è dato saperlo con certezza, perché qui comincia la leggenda di Parthenope il cui corpo, sembra, fu tumulato dagli abitanti della costa lì dov'era caduto.
Sebbene oggi non rimanga traccia di alcun monumento antico nella zona (gli scavi per la metropolitana di Napoli hanno messo in luce una piccola sezione di un antico porto greco-romano, ma non hanno certamente riportato in superficie l'intero litorale dell'epoca), il monumento alla sirena esisteva certamente, e ce ne danno tentimonianza autori più tardi, almeno fino a Stazio. Ogni anno, inoltre, una corsa rituale con una torcia (lampadoforia) si svolgeva per le vie di Neapolis in onore del nume, e la tradizione venne rispolverata nientemeno che da Augusto.

Ed egli (Odysseo) ucciderà le tre figlie (le Sirene) del figlio di Teti (Acheloo) che imitarono gli sforzi della loro madre melodiosa (Melpomene): gettatesi dalla cima della rupe nuotano con le loro ali nel Mar Tirreno, dove l'amaro filo filato dalle Moire le trarrà. Una d'esse (Parthenope) tratta a riva la riceverà la torre di Phaleros e il Glanis che bagna la terra coi suoi rivi. Lì gli abitanti costruiranno una tomba per la fanciulla e con libagioni e il sacrificio di buoi onoreranno annualmente la dea-uccello Parthenope. […] E lì un giorno in onore della prima dea (Parthenope) della fratellanza il comandante della nave di Popsops (lo storico ammiraglio ateniese Diotimo) preparerà per i suoi marinai una corsa di torce, in obbedienza a un oracolo, che un giorno il popolo dei Neapolitani celebrerà.
Quando la sirena morì e la tomba ad essa fu elevata, e la corsa stabilita come consuetudine, la leggenda era nata e la fece tornare in vita. È ancora possibile, ad esempio, leggere la leggenda sulla creazione della pastiera napoletana, secondo alcuni opera della stessa Parthenope.
Narra la leggenda che la sirena Partenope dimorasse nel Golfo disteso tra Posillipo ed il Vesuvio, e che da qui ogni primavera emergesse per salutare le genti che lo popolavano, allietandole con canti di gioia. Una volta la sua voce fu così melodiosa e soave che tutti gli abitanti ne rimasero affascinati e rapiti, accorsero verso il mare commossi dalla dolcezza del canto e delle parole d’amore che la sirena aveva loro dedicato e, per ringraziarla, sette fra le più belle fanciulle dei villaggi furono incaricate di consegnarle i doni della natura: la farina, la ricotta, le uova, il grano tenero, l'acqua di fiori d'arancio, le spezie e lo zucchero. La sirena depose le offerte ai piedi degli dei, questi riunirono e mescolarono con arti divine tutti gli ingredienti, trasformandoli nella prima Pastiera, che superava in dolcezza il canto della stessa sirena.

O munaciello.

 


La leggenda del munaciello ha origini plurisecolare, durante il regno di Alfonso V d'Aragona, quando vi fu uno dei tanti amori impossibili descritti dalla tradizione poetica e musicale napoletana, tra Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante di panni, ed il garzone Stefano Mariconda.
Fortemente contrastata soprattutto dalla famiglia di lei, la coppia ricorreva ad incontri clandestini durante la notte, cui il giovane garzone si recava percorrendo un pericoloso sentiero sui tetti di Napoli. Fu proprio nel corso di una di queste camminate che Stefano fu assalito e gettato nel vuoto, sotto gli occhi della fidanzata. Dopo che la salma del giovane fu inumata, Caterinella, in stato interessante, chiese ed ottenne di rinchiudersi in un convento della zona, dove diede alla luce un bambino piccolo e deforme.
Nonostante la madre avesse chiesto alla Madonna una grazia che donasse al bambino la salute, le condizioni del neonato non mutarono con la crescita. La madre prese a vestirlo con un abito bianco e nero da monaco, sempre speranzosa in un miracolo, e questo fatto fu all'origine del nomignolo munaciello attribuitogli dal popolo. La sua figura dalla testa troppo grande e dal corpo troppo piccolo, che si aggirava per le strade delquartiere Porto, destava disgusto e sospetto, che presto si tradusse in continui insulti e sgarbi nei suoi confronti. Da questo, all'attribuirgli poteri soprannaturali benevoli o malevoli il passo fu breve. In particolare, se il cappuccio dell'abito era di colore rosso, se ne traevano auspici di buon augurio, mentre la malasorte veniva associata al cappuccio nero. Dopo la morte della madre, la situazione peggiorò ulteriormente, e gli vennero attribuite ogni sorta di avvenimenti sfavorevoli, dalle malattie alle nuove tasse, e gli assalti anche fisici alla sua persona peggiorarono. Infine, il munaciello scomparve misteriosamente, e la voce popolare fu che fosse stato portato via dal diavolo. Qualche tempo dopo furono ritrovate in una cloaca delle ossa che avrebbero potuto essere quelle del nano, ed avanza l'ipotesi che i parenti Frezza avessero alla fine deciso di assassinarlo.
Senza dubbio 'O Munaciello e' il personaggio piu' nominato e piu' temuto dai napoletani. Questi rappresenta lo spiritello dispettoso e bizzarro che, con il suo imprevedibile comportamento, ne fa l'entita' piu' citata nelle leggende. Al comportamento dispettoso spesso si accompagnano benevoli "lasciti" in moneta contante. In questo caso non bisogna rivelare a nessuno l'episodio, pena l'accanimento del Munaciello nei nostri confronti. Non e' raro un comportamento da rattuso in presenza delle giovani e belle donne.

 “bella ‘mbriana”



La bella 'mbriana, per il popolo napoletano rappresenta lo spirito della casa, buon angelo del focolare e portatrice di fortunati eventi.
La derivazione etimologica proviene dal latino "meridiana" e quindi allude ad uno spirito che compare nelle ore pù luminose del giorno o che si intravede alla “controra”, ossia nel primo pomeriggio.

La "bella 'mbriana" è una creatura misteriosa, una presenza gentile e benevola, che gli anziani credono dimori in maniera fissa in un'abitazione, posta da lei sotto la sua protezione.

E' difficile descrivere il suo aspetto poiché ella appare solo per un qualche istante magari accanto ad una tenda mossa dal vento o nel riflesso di una finestra, o in un angolo buio della casa e si tratta sempre di apparizioni troppo fugaci perché si possa affermare di averla vista.
Invisibile, impalpabile ma presente, lei c’è e sarebbe secondo la tradizione. Di aspetto piacente, ben vestita, al punto che molti la descrivono come una donna molto bella, una giovane donna dal viso dolce e sereno, una figura chiara e solare ed è paragonata alle fate dei bambini.
La leggenda narra che quando uno sguardo umano la sfiori si tramuterebbe in farfalla o in un Geco, l'animaletto simile ad una lucertola che, nelle sere d'estate, dà la caccia agli insetti vicino alle lampade; per il suo legame con questa fata capricciosa, i napoletani considerano il Geco un portafortuna e si guardano bene dal cacciarlo via o dal disturbarlo.

La”bella'mbriana” regna, controlla e consiglia gli abitanti della casa e pare gradisca molto l'ordine e la pulizia e per questo una casa trascurata la renderebbe irascibile. Nel passato quando si decideva per un trasloco, si cercava di parlarne fuori casa, in modo da non farle sapere nulla, per non attirarsi le sue ire.
Viene invocata in tutte le situazioni difficili che compromettono la serenità familiare. In genere si tratta di uno spirito buono, ma attenzione a non offendere mai la “bella 'mbriana “ perché potrebbe addirittura provocare la morte di uno dei familiari.
Ancora oggi le persone più anziane, quelle del popolo, in segno di rispetto, ogni qualvolta entrano o escono dalla
propria casa le rivolgono un saluto, un ossequio, talvolta dicendo ad alta voce:"Buonasera, bella'mbriana mia ”.
Un tempo, si metteva a tavola un posto in più e comunque in casa doveva esserci una sedia in più per lei per ospitarla e farla riposare in qualsiasi momento. Se tutte le sedie fossero occupate la bella ‘mbriana potrebbe andare via con tutte le sciagure derivanti dalla mancata ospitalita'.
Se si ristruttura l'appartamento si può offendere e si può essere colpiti per ripicca dalla morte di un caro. Un proverbio, al proposito, recita: “Casa accunciata morte apparecchiata”(casa ristrutturata morte preparata…in agguato).